ROMANZO
DI
ANTONIO CACCIANIGA
Quarta Edizione
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1888.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Tip. Fratelli Treves.
[1]
IL BACIO DELLA CONTESSA SAVINA
Il romanzo della mia vita incomincia quando ioavea diciott'anni, e passavo gran parte del giornoal balcone, in casa di mio zio canonico. Allora lacontessa Savina di Brisnago aveva sedici anni, ericamava, seduta presso al balcone dirimpetto delmio. Era una bella giovanetta, aveva un profilo dolcissimo,un nasino provocante, una bocca soave,capelli neri rilevati sulla fronte, occhi bruni, divini.Mi pareva un angelo sceso dal cielo, tanto i suoimovimenti erano leggiadri e maestosi. Io non misaziava mai di contemplarla, ella di tratto in trattoalzava la testa dal lavoro, si passava una manosulla fronte, si lisciava i capelli, poi con aria distrattaguardava il cielo, le case di fronte e le tendinedella finestra. Il suo sguardo percorrendo questalinea attraversava naturalmente il mio balcone, equantunque passasse come un lampo, pure mi gettavalo scompiglio nell'animo. Non saprei spiegarel'arcana attrattiva, che come un filo invisibile mi legava[2]a quella fanciulla, tenendomi immobile perdelle ore.
Veronica, entrando nella mia stanza come unavalanga, rompeva sovente quel fascino annunziandomiil pranzo. Allora io scendeva e andava a collocarmia mensa dirimpetto dello zio, che mangiavacon grande appetito, mentre io inghiottiva ognicibo con ripugnanza. Egli mi interrogava sui mieistudi, mi parlava di pedagogia, di metodica, d'aritmetica;io rispondeva sbadatamente, pensando aquella finestra. Finito il pranzo, mio zio si ritiravaa fare il suo chilo, ed io ritornava alle mie estatichecontemplazioni. In casa Brisnago pranzavanomolto più tardi di noi, e talvolta prima del pranzoandavano a fare un giro pel corso. Allora ella sialzava da sedere, dava un'occhiata fuori della finestra,guardava alla sfuggita la nostra casa, ed iosentiva il dardo fatale entrarmi nel cuore e lacerarlo.Essa scompariva, e qualche tempo dopo loscalpito dei cavalli e il rumore della carrozza miavvertivano della partenza.
Allora io prendeva il mio cappello, e me ne andavagirovagando per le vie di Milano sulle tracciedella mia stella. La trovavo quasi sempre sui bastioni,i nostri sguardi si scontravano rapidamenteed io rimaneva come sbalordito a contemplare quelcocchio che correva portando con sè qualche cosadi me stesso; tanto è vero che imbattendomi pervia in taluno de' miei amici che si arrestava a parlarmi,io faceva la figura di un imbecille, e mi restavaappena appena tanta intelligenza da accorgermene.
Mio zio canonico non s'avvedeva di nulla; rinchiusonella sua sfera d'azione, egli compieva le sueevoluzioni quotidiane con esattezza inappuntabile.[3]La messa e la colazione, le sacre funzioni ed ilpranzo, il breviario e il passeggio, il chilo ed ilsonno si succedevano per lui con tale regolarità, chei nostri vicini se ne servivano per regolare gli orologi,e dicevano: — il canonico Carletti va a dirmessa: sono le otto; il canonico va a cantar vespro:sono le due. La nostra vita rassomigliava perfettamentead un cronometro; Veronica era la secondaruota, come io era lo scapamento che riceve l'impulso,e tutto si muoveva per addentellato del motoreprincipale, ossia del padrone di casa.
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